Di Simon Hoddinott –
Determinismo linguistico
Le parole sono meramente un involucro per i nostri pensieri nel momento in cui li dobbiamo articolare, oppure è il pensiero stesso ad essere plasmato dal nostro linguaggio? Pensiamo letteralmente in una lingua specifica, quali l’italiano o il francese, oppure mediante un metalinguaggio completamente inesprimibile in parole? Questa è la domanda centrale di cui si occupa il determinismo linguistico e quello che esploreremo in questo articolo.
«La parola generò il pensiero»
È un interrogativo anche relativamente antico nonché diffuso. Nel 1820 Shelley pubblicava Prometeo Liberato in cui scrive come Giove «diede all’uomo la parola, e la parola generò il pensiero, che è la misura dell’Universo». Il glottologo Otto Jespersen scrisse la frase «tale è l’idioma, così la nazione» nel tardo ‘800, quando il colonialismo aveva già raggiunto il suo apice. Più tardi sarà George Orwell a sostenere che sono le parole stesse a definire le idee, concependo in 1984 uno stato totalitario che estende il suo dominio fino al controllo del pensiero stesso attraverso una neolingua, che elimina dal vocabolario tutte le parole ritenute sovversive. Sono dunque non pochi gli scrittori che sostenevano che il pensiero è fondamentalmente condizionato dal linguaggio. Sono sicuro che anche voi conoscete dei luoghi comuni secondo cui la lingua di una persona ne può determinare il comportamento.
La teoria del determinismo linguistico, ovvero che vi sia uno stretto rapporto di dipendenza tra linguaggio e pensiero, è una narrativa suggestiva, perché è in grado di dare una risposta relativamente semplice ad un fenomeno molto complicato: le culture altrui. Permette di delineare nettamente “l’altro” dal familiare, attribuendo un po’ di questa alterità alla lingua che parla.
Etnocentrismo e nazionalismo
La tesi del determinismo linguistico riflette infatti lo zeitgeist etnocentrista dell’epoca in cui è stata concepita. Lo stato-nazione era fondato sul principio di nazione, quale un complesso di persone accomunate da tradizioni, lingua, cultura e storia, che creava una sorta di fraternità tra concittadini che altrimenti sarebbero soltanto perlopiù degli sconosciuti tra di loro. Ma il corollario di ciò fu la sfiducia che necessariamente destava nei confronti degli stranieri. Si arrivava fino a dipingere popoli indigeni come selvaggi e primitivi, basandosi talvolta sulla presunta semplicità delle loro lingue, in modo da giustificare attività colonialiste. Il determinismo linguistico nasceva quindi proprio in questo contesto storico e rispecchia le sue ideologie prevalenti.
Fu soltanto intorno agli anni ’60–’70 del secolo scorso che la tesi del determinismo linguistico è stata smentita. Infatti oggigiorno la comunità scientifica si pronuncia più a favore del cosiddetto relativismo linguistico debole, ovvero una teoria secondo cui il linguaggio e il pensiero si condizionano a vicenda in egual misura e comunque debolmente. Vale a dire che non esiste nessun legame stretto tra idioma e nazione, come proposto da Jespersen.
L’ipotesi Sapir-Whorf
Il determinismo linguistico è anche conosciuto come l’ipotesi Sapir-Whorf, per il grande contributo che due uomini, Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, hanno portato alla sua concreta definizione e alla sua diffusione. L’antropologo Sapir era un brillante studioso delle lingue native americane, e il linguista autodidatta Whorf ne era un suo seguace.
Sapir sosteneva che «gli esseri umani non vivono soltanto nel mondo obiettivo, [..] ma dipendono in maniera importante dalla singola lingua che è divenuta il mezzo di espressione della loro società. […] In gran parte noi vediamo, udiamo, e in generale proviamo le esperienze che proviamo proprio perché le abitudini linguistiche della nostra comunità ci predispongono a scegliere certe interpretazioni».
Si capisce che Sapir avrebbe accolto il luogo comune secondo cui la comunità linguistica cinese abbia difficoltà a immaginare situazioni controfattuali, perché manca di un tempo verbale condizionale esplicito e dunque non dispone dell’ “abitudine linguistica” necessaria per esprimere tale interpretazione.
Whorf viene considerato ancora più deterministico di Sapir, teorizzando che: «La nostra analisi della natura segue linee tracciate dalle nostre lingue madri. Le categorie e le tipologie che individuiamo nel mondo dei fenomeni non le troviamo lì come se stessero davanti agli occhi dell’osservatore; al contrario, il mondo si manifesta in un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalle nostre menti, cioè soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti».
Mentre Sapir sostiene che le nostre lingue ci “predispongono” a percepire il mondo in un certo mondo, l’approccio di Whorf presuppone un legame ancora più forte: ovvero che la nostra percezione sarebbe dettata soprattutto dai sistemi linguistici nelle nostre menti. Attribuisce questo ruolo alla lingua madre, e perciò nemmeno l’acquisizione di ulteriori lingue permetterebbe di rimpiazzare l’apparato concettuale che ci viene imposto dalla madrelingua.
Le culture cromatiche e il daltonismo dei greci
Una delle aree cui molti fautori del determinismo linguistico accingono è la percezione dei colori. È risaputo che ci sono lingue al mondo, come l’italiano, che distinguono tra il blu e l’azzurro mediante una sola parola, mentre altre lingue, come l’inglese, dispongono di una sola parola per entrambe le tonalità. Si potrebbe quindi concludere che l’inglese è un linguaggio più povero, perché la comunità linguistica anglofona tende a omologare questi colori, poiché non ha ritenuto necessario codificarli con due categorie linguistiche distinte. Come accennato sopra il determinismo linguistico è attraente da questo punto di vista, perché ci permette di giustificare la mancanza di tale distinzione in certe lingue.
Nietzsche, che prima di diventare filosofo fu professore di Lettere classiche, ci regala una sua analisi molto candida sulla percezione dei colori nell’Antica Grecia in un aforismo intitolato Daltonismo dei pensatori, riportato di seguito.
«Come diversamente i Greci hanno guardato alla natura, se, come si deve riconoscere, i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e per il verde, e al posto del primo vedevano un bruno più scuro, invece del secondo un giallo (se essi dunque, per esempio, indicavano con la stessa parola (kyanos, n.d.r.) il colore dei capelli scuri, quello del fiordaliso e quello del mare meridionale, e di nuovo con una stessa parola (chloros, n.d.r.) il colore delle piante più verdi e quello della pelle umana, quello del miele e quello della resina gialla: così che i loro più grandi pittori, stando alle testimonianze, hanno ritratto il loro mondo solo con il bianco, il nero, il rosso e il giallo)».
È anche vero che i greci descrivevano i colori in modo diverso e che usavano gli stessi aggettivi per descrivere oggetti che a noi sembrano palesemente diversi. Mentre le lingue moderne occidentali descrivono i colori in termini della loro tonalità, si ipotizza che i greci semplicemente prediligessero descrivere i colori riferendosi alla loro luminosità. Un concetto che, in realtà, non ci è del tutto sconosciuto: infatti esiste in italiano la parola “pastello”, che denota un colore di qualsiasi tonalità, avente però elevata luminosità e bassa saturazione. I greci, a loro volta, avrebbero usato aggettivi di questo tipo, che permettono una sorprendente flessibilità riguardo alla tonalità ma sono precise a loro modo nella descrizione della luminosità.
Ma il fatto che i greci descrivessero i colori con quello che ci sembra grande flessibilità non significa che percepivano realmente il mondo in modo diverso. Nietzsche sosteneva che i greci fossero fisiologicamente “daltonici”. William Gladstone fu talmente convinto del darwinismo tanto in voga all’epoca che propose che la presunta cecità dei greci provasse che il loro apparato visivo era sottosviluppato e incapace di distinguere diverse tonalità tra di loro, essendo ancora in una fase di evoluzione primitiva.
Secondo la logica di Nietzsche, ci sarebbero centinaia di migliaia di londinesi “daltonici” che ogni giorno si perdono nella rete della metropolitana, non potendo distinguere tra la Piccadilly Line, che è blu, e la Victoria Line, che è effettivamente azzurra. Può dunque veramente esistere un legame linguaggio-pensiero talmente forte da alterare la percezione stessa e provocare il daltonismo in parlanti di certe lingue?
Il difetto logico del determinismo linguistico
Tutte le argomentazioni che abbiamo analizzato finora, di Sapir, Whorf, Nietzsche e altri, soffrono dello stesso difetto: il ragionamento circolare. Sostengono che:
A: le lingue straniere hanno parole strane, e chi ne parla una si comporta in modo diverso;
B: quindi le parole determinano questa loro diversità;
C: per la dimostrazione di ciò basta guardare che parole strane usano!
Tutti i teorici sopranominati si basano sull’analisi delle parole e non del pensiero stesso; Sapir e Whorf sulle lingue native americane e Nietzsche sull’antico greco. Così facendo mettono in atto una sorta di corto circuito logico, perché se il criterio di valutazione rimane sempre il linguaggio, si può al massimo confermare l’esistenza di categorie linguistiche particolari, ma non stabilire un rapporto tra linguaggio e pensiero. Quando si riscende dal piano della percezione nel piano linguistico, si perde la voce in capitolo circa la misura in cui viene influenzato il pensiero, perché si è tornati a esaminare la cosa che si supponeva causasse l’effetto, invece di studiare l’effetto stesso. Per descriverlo in un’analogia, sarebbe come se uno scienziato misurasse l’efficacia di un nuovo farmaco studiando il farmaco stesso, anziché osservandone l’effetto in soggetti a cui viene somministrato.
Evidentemente è impossibile (finora) capire quello che percepisce davvero una persona, quindi non possiamo analizzare il pensiero stesso per stabilire se viene influenzato dal linguaggio o meno. Ma questa confutazione serve a sfatare tutte le presunte prove del determinismo linguistico che si basano esclusivamente su analisi linguistiche. Questa controdeduzione è stata proposta per primo da Steven Pinker in un suo libro molto acclamato intitolato The Language Instinct, di cui consiglio caldamente la lettura.
I lapsus verbali: errore linguistico o cognitivo?
Oltre a questa confutazione puramente formale, esistono diversi argomenti convincenti che smentiscono la teoria del determinismo linguistico. Ad esempio vi sarete certamente ritrovati in una posizione simile: stai parlando liberamente e d’improvviso non ti viene una parola; ce l’hai sulla punta della lingua, sai nominarne sinonimi, ma semplicemente non riesci a ricordare quella parola precisa. In tale caso hai dimenticato soltanto la parola – l’etichetta linguistica – oppure l’intero concetto? Magari è una parola specifica, come albero a camme; sai esattamente cosa è, come funziona e te lo puoi anche immaginare visivamente. Se qualcuno ti mostrasse un disegno dell’oggetto, sapresti riconoscerlo.
Secondo la logica del determinismo linguistico, sarebbe impossibile concepire qualsiasi cosa senza disporre di un segno linguistico cui associarlo. Stando a Nietzsche senza una parola esplicita a disposizione, non potresti nemmeno visualizzarlo. Ma io, come Pinker e altri sostenitori del relativismo linguistico debole, credo che lapsus mentali come questi siano una prova facilmente intuibile di come i concetti possono esistere senza un particolare segno linguistico.
Il concetto di “impensabilità” nella neolingua di George Orwell
Questa prova semplice mette in discussione l’intero funzionamento della neolingua in 1984 di Orwell. Questi scrive in un epilogo al suo romanzo che «un pensiero eretico […] sarebbe stato letteralmente impensabile per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso», aggiungendo in un secondo commento, «così come una persona che non conosca per niente la tecnica del gioco degli scacchi non può essere a parte dei significati secondari delle parole regina o torre».
Ma con ciò Orwell, come altri, oltrepassa i confini tra pensiero e linguaggio. In realtà sia la “tecnica del gioco degli scacchi” sia “il significato della parola regina” sono entrambe idee concettuali, esistenti al di sopra del piano linguistico, che racchiudono in sé rispettivamente una serie di regole generali e i movimenti ammissibili per un singolo pezzo. Il segno linguistico – la parola – che usiamo per indicare un concetto – in linguistica detto il “referente” – è completamente arbitrario. L’arbitrarietà del segno linguistico è alla base della traduzione, perché ci permette di associare più segni linguistici appartenenti a diverse lingue a un unico referente. Infatti è perfettamente verosimile uno scenario in cui una persona conosce le regole degli scacchi ma è ignara dei nomi dei pezzi o li indica con altre parole: è il caso della protagonista della serie Regina degli Scacchi, la quale è destinata a diventare un prodigio degli scacchi, quando prima di impararne il nome si riferisce alla regina come “quello alto”.
Ildefonso, l’uomo senza parole
Un caso analogo, ma molto più significativo, è quello di Ildefonso: un giovane nativo messicano cresciuto sordo, analfabeta e senza lingua dei segni, quindi privato del tutto di facoltà linguistiche. Venne scoperto da un insegnante Susan Schaller, che ne descrive il processo di apprensione della lingua dei segni americana in un libro intitolato A Man Without Words. Secondo il racconto Ildefonso comprende in pochi minuti concetti basilari dell’aritmetica e dopo divora voracemente l’insegnamento della lingua dei segni americana. Schaller parla di uno scintillio di intelligenza che gli intravede negli occhi. Se credessimo i deterministi linguistici come Shelley che scrive come la parola avrebbe generato il pensiero, Ildefonso sarebbe dovuto rivelarsi un ebete. Ma nella realtà gli mancavano soltanto i segni linguistici cui appoggiarsi per esprimere i pensieri che esistevano già senza una struttura verbale nella sua mente.
Il nonsense e i neologismi
Se il nostro apparato concettuale fosse effettivamente limitato dalle nostre parole, sarebbe impossibile creare frasi insensate come «verdi idee incolori dormono furiosamente», prima discussa da Chomsky, perché la semantica di per sé non lo consentirebbe. Allo stesso modo se la relazione di determinazione andasse sempre dal linguaggio verso il pensiero, non potremmo mai creare nuove parole, quali friendzonare o eurobond. Dovremmo accontentarci del patrimonio lessicale già esistente! Il fenomeno dei neologismi quindi dimostra che talvolta è il pensiero a influenzare le parole.
Rousseau il doganiere-pittore
Per quanto concerne la percezione dei colori, vorrei portare alla vostra attenzione il dipinto di Henri Rousseau esposto in capo a questo articolo. Parlando a un giornalista riguardo a un quadro simile, Rousseau si vantò di aver usato 22 sfumature diverse di verde. Stando a Nietzsche e i deterministi linguistici, un pittore può solo percepire e dipingere un colore se ha un nome per identificarlo! Ora in confronto con quanto dice Rousseau ci sembra un’idea assurda.
L’attrattiva del determinismo linguistico
Gli argomenti contro il determinismo linguistico che abbiamo esplorato dovrebbero essere schiaccianti, ma probabilmente questa tesi è destinata a sopravvivere in quanto luogo comune per ancora molto tempo, perché rimane comunque un’idea dalla forte attrattiva emotiva. Avvalora la nostra visione del mondo incentrata sui nazionalismi e funge da passepartout ideologico per dare un senso alle culture altrui.
Come accennato ora si tende a sostenere la teoria del relativismo linguistico debole, ovvero che non esiste una particolare direzione nel rapporto di condizionamento tra lingua e cognizione. Tutto quello che si è riusciti a provare finora è che le parole possono influenzare la memoria. Vale a dire se etichettiamo un concetto con un certo segno linguistico, il nostro cervello potrò ritirarlo dalla memoria più velocemente e più fedelmente. Ma la memoria non è equiparabile all’intelligenza o al pensiero.
Rispondendo alle due domande poste all’inizio, possiamo concludere che secondo il relativismo linguistico debole, non pensiamo veramente in una lingua specifica, e che le parole sarebbero soltanto un involucro verbale per una sorta di metalinguaggio inesprimibile della mente.
Quale rilevanza ha tutto ciò per la nostra vita quotidiana?
Significa che le lingue non ci separano tanto quanto si potrebbe pensare. Oggi sappiamo che la lingua di una persona non definisce il suo pensiero o la sua personalità. Anche se a prima vista potrebbe sembrare intuitivo, ricordatevi che è frutto di una società prima colonialista e poi nazionalista (nel senso di organizzata in stati-nazione) che voleva razionalizzare l’alterità di altri popoli. Occorre superare questo stereotipo e trattare tutti come equi o perlomeno non categorizzarli in base alla lingua che parlano.