Di Eleonora Giglio –
Le differenze tra un traduttore competente che ha acquisito gli strumenti teorici e pratici della professione grazie a un percorso di studio mirato e un traduttore improvvisato appaiono in tutta la loro chiarezza se interpretiamo la traduzione come un’attività di problem solving. Solo un traduttore qualificato sa gestire sapientemente il suo compito, individuando e risolvendo le varie fasi di un processo che si configura come progetto. Tradurre professionalmente significa saper costruire di volta in volta un progetto di traduzione, volto a costituire un rapporto tra due testi: quello di partenza che è già materialmente disponibile e quello di arrivo, ancora privo di una sua forma concreta. Scelta dopo scelta, eliminazione dopo eliminazione delle opzioni non compatibili, ecco che compare la traduzione, frutto quindi di un processo decisionale e delle strategie adottate per risolvere i problemi incontrati. Se il professionista non solo è consapevole del progetto, ma l’ha introiettato, l’improvvisatore è totalmente privo di questa consapevolezza, come uno sciatore principiante che abbozza e azzarda mosse nel disperato tentativo di trovare l’equilibrio, ma che nulla ha a vedere con l’atleta che percorre le piste pensando a qualsiasi cosa, tranne che a rimanere in piedi.
Scelte del traduttore
Le scelte che si presta a fare il traduttore si basano sulla capacità di riformulazione e di ricodificazione. Si tratta di conoscere i meccanismi che caratterizzano la comunicazione linguistica nelle sue molteplici sfaccettature (situazione sociale, interlocutori, contesto comunicativo). In parole semplici, si tratta di essere allenati a leggere tra le righe. Ogni volta che produciamo un enunciato teniamo ben presente chi sono le persone a cui ci stiamo rivolgendo e l’ambiente in cui ci troviamo perché sappiamo bene che se con un compagno di classe possiamo tranquillamente lasciarci andare a un «che due palle la lezione di stamattina», non potremmo fare la stessa cosa con l’insegnante senza incorrere in qualche guaio. Se, però, il professore chiedesse di sua spontanea iniziativa se abbiamo trovato interessante la lezione, potremmo rispondere senza timore (forse) di ripercussioni successive: «l’argomento affrontato non è di mio grande interesse». Questo perché in ogni enunciato esiste un’informazione invariante (COSA dico) e una modalità di espressione (COME lo dico) che varia e ci permette di risalire al rapporto tra i parlanti, al loro background culturale, al loro status sociale e a tante altre informazioni implicite. Più si è consapevoli di questi meccanismi, più si è bravi a decifrare le implicature conversazionali e a interpretare correttamente il messaggio.
Su questo meccanismo si basa la traduzione tra due lingue, con alcune differenze importanti. Se nella traduzione intralinguistica (in una stessa lingua) il processo di trasformazione di un enunciato difficilmente raggiunge la perfetta sinonimia proprio perché, al variare dei fattori, cambiano di molto le modalità espressive, nella traduzione interlinguistica (tra lingue diverse) è molto più probabile arrivare a trasformare un enunciato di partenza in un enunciato di arrivo pragmaticamente equivalente e funzionale. Ciò che è determinante, infatti, è la situazione comunicativa: se un anglofono s’inalbera, la sua frustrazione tenderà probabilmente ad esprimersi aggiungendo la parolina “fucking” o “bloody” a profusione nelle sue frasi (“This fucking dog! He pooped again on the sofa! And look at his bloody hairs on my bed!”); un italiano nello stesso contesto non direbbe «sto cane fottuto! Ha fatto di nuovo la cacca sul divano! E guarda i suoi fottuti peli sul mio letto!», ma più probabilmente al posto di “fottuto” userebbe “cazzo”. Per ogni unità linguistica occorre trovare il traducente equivalente appropriato, anche se si tratta di turpiloquio. Un parametro molto utile per svolgere bene questo lavoro è la marcatezza; è sempre il contesto a determinarla: parlare di “epistassi” nell’ambiente medico risulta del tutto normale; riferirsi ai compagni di calcetto dicendo «Fermi, fermi! Ho bisogno di un fazzoletto perché ho un’epistassi» risulterebbe decisamente marcato, strano, per quella situazione.
“L’orecchio interno” del traduttore competente sa cogliere quando un’espressione vìola la prevedibilità d’uso in quel contesto e sa fornire traducenti che ben si adattano e funzionano (marcati che siano o no).