Di Maria Ester Lombardi –

C’è una convinzione che chi traduce è tentato di far sua: quella che esista una traduzione perfetta, e che il compito del traduttore sia raggiungerla. La traduzione, però, è sofferenza e sperimentazione. Sperimentazione dei propri limiti e dei limiti della lingua in cui si traduce; è tentare e sbagliare innumerevoli volte.

 «Il testo fonte […] oppone una resistenza a farsi sradicare dal proprio terreno culturale per farsi tradurre altrove.»[1]

Partendo da questa premessa è possibile uscire dalla condizione di frustrazione in cui il traduttore si immerge piano piano, scoprendosi impotente di fronte alla resistenza del testo straniero. A differenza del testo scientifico, in cui l’autore «traduce sé stesso passando da una lingua a una terminologia»[2], quindi un linguaggio universale in cui gli individui non possono capirsi se prima non concordano il significato dei segni, nel testo letterario ciò che emerge dalle righe è la persona dell’autore che sta presentando sé stesso senza tradursi al lettore.

Questo genera un testo che in traduzione è impossibile veicolare senza problemi; a sua volta, il testo genera una perdita, un residuo comunicativo. Citando un esempio proposto da Umberto Eco nel suo saggio Sulla traduzione, un’espressione idiomatica inglese come “it’s raining cats and dogs” non si può tradurre alla lettera; è necessario optare per una piccola infedeltà linguistica al fine di guadagnare una fedeltà culturale[3], e ottenere nel lettore di lingua italiana lo stesso effetto che si provoca nel lettore di lingua inglese: alcune possibili traduzioni potrebbero essere “piove come Dio la manda” o “piove a catinelle”. Che cosa accade in questo caso nella traduzione dall’inglese all’italiano? Si ha una perdita inevitabile a livello di immagini (tradurre “piovono cani e gatti” disegnerebbe sulla faccia del lettore un grande punto di domanda), ma c’è anche un guadagno: si è trovata un’immagine che il lettore di lingua italiana è in grado di associare al suo background culturale e che gli consente quindi di ricodificare il messaggio. In traduzione, perciò, la perdita diventa inevitabile. Tuttavia, spesso è possibile compensare questa perdita altrove, in altri punti del testo.    

 Quella della compensazione è una strategia efficace che aiuta il traduttore ad accettare con maturità e serenità questo lutto, a elaborarlo rinunciando definitivamente al sogno della traduzione perfetta[4]. Lo scopo della traduzione, infatti, non è la ricerca utopistica di un testo d’arrivo perfettamente equivalente al testo di partenza (anche perché il testo di partenza nel suo sopravvivere si modifica, come nel tempo anche le parole maturano e mutano, fino a diventare d’uso comune ed essere addirittura percepite come arcaiche[5]; perciò la traduzione stessa non è mai un processo statico, ma è sempre in movimento), ma è racchiuso nel concetto di hospitalité langagière[6] suggerito da Paul Ricoeur: l’accoglienza dello straniero come fine etico dell’atto traduttivo[7] . La perdita è il segno della differenza tra il proprio e l’altrui. Ciò che si guadagna non riguarda solo la compensazione di cui sopra, ma anche l’irriducibile presenza dell’altro e la conoscenza più profonda di sé, poiché «è solo attraverso la conoscenza dell’altro che si può giungere a conoscersi meglio»[8].

 

Bibliografia

[1] Cavagnoli F., Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica, 2010, p. 19.

[2] Ortega y Gasset J. Miseria e splendore della traduzione, (1937), (in Nergaard Siri, La teoria della traduzione nella storia, Milano, Strumenti Bompiani, 2009, p. 183).

[3] Eco U., Riflessioni teorico-pratiche sulla traduzione, (in Nergaard Siri, Teorie contemporanee della traduzione, Milano, Strumenti Bompiani, 2010, p. 123).

[4] Ricoeur P., Tradurre l’intraducibile: sulla traduzione, (traduzione e studi di Mirela Oliva), Città del Vaticano, Urbaniana University Press, 2008, p. 41.

[5] Benjamin W., Il compito del traduttore, (in Nergaard Siri, La teoria della traduzione nella storia, Milano, Strumenti Bompiani, 2009, p. 226).

[6] «Un concetto […] ben più ampio di quanto non traspaia in ‘ospitalità linguistica’, il modo in cui viene comunemente e in modo approssimativo tradotto. In realtà nell’aggettivo langagier, con quel suo rimandare al langage più che alla langue, c’è più di una questione puramente linguistica. È proprio in questo iato fra linguaggio e lingua (Jervolino 2008: 20), una differenza che in italiano e in altre lingue neolatine è possibile esprimere, che si inserisce la pratica, l’esperienza e la riflessione sulla traduzione.». Cavagnoli F., Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica, 2010, p. 20.

[7] «L’atto etico consiste nel riconoscere e nel ricevere l’Altro in quanto Altro». Berman A., La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003, p. 61.

[8] Cavagnoli F., Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica, 2010, p. 129.

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